Remo Bodei

 

M a t r i c i   d i   t e m p o

 

 
 

 

Leçons de Ténèbres: così s’intitola una composizione di François Couperin (eseguita la notte del mercoledì della Settimana santa) e il libro del filosofo e sociologo Roger Caillois. Rispetto allo scritto, il francese permette di udire o “Lezioni di tenebre” o “I suoni di tenebre”. In entrambi i casi, qualcosa ci viene insegnato o rimbomba a partire dalla tenebre.

Le opere di Roberto Ciaccio esprimono, sul piano visuale, entrambi i significati: la luce vi spunta spesso dal buio, dalle tonalità oscure e si manifesta in una sorta di tremolante esitazione, nel restare in bilico rispetto a un suo eventuale risucchio delle tenebre.

Il tempo si sedimenta nello spazio delle lastre o dei quadri. La tecnica e la poetica di Roberto Ciaccio consistono nel far emergere le tracce che eventi, anche casuali (“ferite del tempo” quali inchiostri, graffi, ruggini sul metallo), e presenze umane (impronte di mani e di garze, sovrapposizione di fogli) hanno lasciato sulle matrici di rame, zinco, ferro e ferro cromato, da cui vengono poi ricavate le stampe. In questo modo è la lastra stessa che racconta la sua storia. Incorporando il foglio, la lastra diventa paradossalmente uno specchio, un Doppelgänger del foglio, rimettendo in gioco il passato, che riaffiora come un revenant o un luogo della nostalgia.

Proprio lo specchio, con il suo simultaneo riferirsi a una presenza e a un’assenza, a un recto/verso rinvia al problema dell’origine, a ciò che genera l’immagine e al suo ritorno virtuale, duplicato o moltiplicato. Ciò avviene, tuttavia, in Ciaccio, attraverso una derridiana différance, vale a dire mediante un dispositivo pittorico che mette in mora l’alternativa, da un lato, tra l’arte in Croce come “conoscenza di cose nella loro individualità” (“questo fiume, questo lago, questo rigagnolo, questa pioggia, questo bicchier d’acqua” e non l’acqua in generale, in quanto concetto) o l’opera d’arte come originale (caratterizzata per Benjamin dall’“aura” dell’unicità) e, dall’altro, la sua riproducibilità tecnica, rivendicata per l’età contemporanea. La stessa matrice genera infatti, ogni volta, dei multipli sempre leggermente diversi, riunendo così la producibilità e l’irriproducibilità, l’unicità e la serialità, la continuità e la disseminazione. Rispetto al precedente, ogni esemplare della serie si presenta in tal modo come una specie di metalinguaggio.

Le lastre, i fogli, le tele sono quindi – a loro modo - forniti di memoria, ossia di persistenza del passato nel presente, ma anche di oblio, giacché ogni nuova sovrimpressione oscura in parte la precedente. Per questo gli eventi del passato (torchi, garze, polveri, ripuliture e immagini precedenti di altre impressioni) si sovrappongono nella lastra attraverso una paradossale compresenza di una compresenza e di una successione, scandita da soglie dove lo stacco delle sfumature è più netto, quasi uno strappo (un heideggeriano Riss) delle diverse presenze. In Infinito Nonfinito troviamo così, ad esempio, una lastra, da cui sono tratte XV cartelle di grande formato che la ‘interrogano’ quasi per farle ‘confessare’ i ricordi, per recuperarne la storia.

Nelle lastre-matrice, nei monoprints, frequenti a partire dal 1999, nel Trittico per la croce o nelle piccole incisioni di Leçons de Ténèbres, (dove l’immagine del revenant si manifesta nell’attraversamento del supporto cartaceo, il papier japon, dal recto al verso) diventa dominante il pathos per il sacro, sottolineato dal rapporto distanza/prossimità e dal senso di alterità veicolato da rivelarsi graduale e cangiante del colore visto da diverse angolature.

L’opera di Roberto Ciaccio risulta, in questo campo, dalla simbiosi tra arte e artigianato, da lui stesso voluta e praticata, ma che non sarebbe stata possibile senza la preziosa, competente e acuta collaborazione di Giorgio Upiglio dal cui laboratorio e dai cui strumenti escono lastre e fogli. Si potrebbe dire che, in maniera moderna, continua qui la tradizione delle antiche botteghe di pittura: solo che non ci sono apprendisti e i maestri sono due.

Certo, Roberto Ciaccio non lavora solo con lastre, dipinge anche in proprio su tela e su compensato, usa collage di fogli dipinti con vernici e polveri d’asfalto oppure compone dittici. Nei dipinti a olio, caratterizzati dalla divisione dello spazio di stile oppositivo, usa spesso il nero assoluto, opaco, che dà un vorticoso senso di perdita, i bianchi freddi di titanio o quelli, più morbidi, di zinco, assieme alle terre e a venature di rosso di cadmio o a sfumature di verde.

Roberto Ciaccio è uno di quei rari artisti che hanno tratto dalla filosofia motivi d’ispirazione, che ha unito, nel senso di Merleau-Ponty, l’occhio e lo spirito. La sua è un’opera in cui si vede, dal vivo, il processo d’impollinazione reciproca tra pensieri e immagini, tra ragione e immaginazione.

La sua poetica è dichiaratamente ispirata a Heidegger, in particolare al saggio L’origine dell’opera d’arte, del 1935, che contiene alcune delle parole-chiave che orientano la sua ricerca, come “luce” (Licht) o “radura” (Lichtung). Di Heidegger Ciaccio condivide l’idea fondamentale che la verità o le cose del mondo non si presentano in piena luce, in diretta evidenza, ma nel contrasto tra luce e ombra, come quello che, appunto, si mostra dentro la radura di un bosco, dove il chiarore penetra più abbondante attraverso i rami e le foglie degli alberi e la luce danza leggera (leicht); dove non appare nel suo radioso trionfo, ma spartisce la sua presenza con le ombre. L’opera d’arte, per Heidegger, custodisce appunto questo manifestarsi/nascondersi delle cose.

La produzione di Ciaccio, tuttavia, anche se non credo che la conosca, mi fa pensare piuttosto alle posizioni della filosofa ginevrina Jeanne Hersch, allieva di Jaspers, secondo la quale l’opera d’arte apre un “varco nel tempo”, sfiora il punto di tangenza tra il divenire e l’eternità, forma un nodo tra trascendenza e immanenza, mostra quanto permane in ciò che passa, offrendo il massimo mistero nella massima trasparenza e presentando così una sorta di miniatura d’eternità.