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Premessa
Il Simposio, che ruota attorno all’opera di Roberto Ciaccio, ha quale
sfondo temi più generali, come: a) Le riflessioni sulla natura
dell’opera d’arte nella filosofia del Novecento (Benedetto Croce, Martin
Heidegger, Walter Benjamin, Maurice Merleau-Ponty, Jacques Derrida,
Jeanne Hersch); b) La natura dell’oggetto artistico, della sua
originalità, riproducibilità o différance, anche dal punto di vista dei
nuovi media; c) La temporalità e la memoria quali tracce nell’opera; d)
Il legame tra il sacro e l’immagine; e) La relazione tra il fare
artistico, il lavoro artigiano e i materiali (in riferimento alla
collaborazione di Roberto Ciaccio con lo stampatore ed editore Giorgio
Upiglio).
Impostazione
Leçons de Ténèbres: così s’intitola una composizione di François
Couperin (eseguita la notte del mercoledì della Settimana santa) e il
libro del filosofo e sociologo Roger Caillois. Rispetto allo scritto, il
francese permette di udire o “Lezioni di tenebre” o “I suoni di tenebre”.
In entrambi i casi, qualcosa ci viene insegnato o rimbomba a partire
dalla tenebre.
Le opere di Roberto Ciaccio esprimono, sul piano visuale, entrambi i
significati: la luce vi spunta spesso dal buio, dalle tonalità oscure e
si manifesta in una sorta di tremolante esitazione, nel restare in
bilico rispetto a un suo eventuale risucchio delle tenebre
Il tempo si sedimenta nello spazio delle lastre o dei quadri. La tecnica
e la poetica di Roberto Ciaccio consistono nel far emergere le tracce
che eventi, anche casuali (“ferite del tempo” quali inchiostri, graffi,
ruggini sul metallo), e presenze umane (impronte di mani e di garze,
sovrapposizione di fogli) hanno lasciato sulle matrici di rame, zinco,
ferro e ferro cromato, da cui vengono poi ricavate le stampe. In questo
modo è la lastra stessa che racconta la sua storia. Incorporando il
foglio, la lastra diventa paradossalmente uno specchio, un Doppelgänger
del foglio, rimettendo in gioco il passato, che riaffiora come un
revenant o un luogo della nostalgia.
Proprio lo specchio, con il suo simultaneo riferirsi a una presenza e a
un’assenza, a un recto/verso rinvia al problema dell’origine, a ciò che
genera l’immagine e al suo ritorno virtuale, duplicato o moltiplicato.
Ciò avviene, tuttavia, in Ciaccio, attraverso una derridiana différance,
vale a dire mediante un dispositivo pittorico che mette in mora
l’alternativa, da un lato, tra l’arte in Croce come “conoscenza di cose
nella loro individualità” (“questo fiume, questo lago, questo rigagnolo,
questa pioggia, questo bicchier d’acqua” e non l’acqua in generale, in
quanto concetto) o l’opera d’arte come originale (caratterizzata per
Benjamin dall’“aura” dell’unicità) e, dall’altro, la sua riproducibilità
tecnica, rivendicata per l’età contemporanea. La stessa matrice genera
infatti, ogni volta, dei multipli sempre leggermente diversi, riunendo
così la producibilità e l’irriproducibilità, l’unicità e la serialità,
la continuità e la disseminazione. Rispetto al precedente, ogni
esemplare della serie si presenta in tal modo come una specie di
metalinguaggio.
Le lastre, i fogli, le tele sono quindi – a loro modo - forniti di
memoria, ossia di persistenza del passato nel presente, ma anche di
oblio, giacché ogni nuova sovrimpressione oscura in parte la precedente.
Per questo gli eventi del passato (torchi, garze, polveri, ripuliture e
immagini precedenti di altre impressioni) si sovrappongono nella lastra
attraverso una paradossale compresenza di una compresenza e di una
successione, scandita da soglie dove lo stacco delle sfumature è più
netto, quasi uno strappo (un heideggeriano Riss) delle diverse presenze.
In Infinito Nonfinito troviamo così, ad esempio, una lastra, da cui sono
tratte XV cartelle di grande formato che la ‘interrogano’ quasi per
farle ‘confessare’ i ricordi, per recuperarne la storia.
Nelle lastre-matrice, nei monoprints, frequenti a partire dal 1999, nel
Trittico per la croce o nelle piccole incisioni di Leçons de Ténèbres,
(dove l’immagine del revenant si manifesta nell’attraversamento del
supporto cartaceo, il papier japon, dal recto al verso) diventa
dominante il pathos per il sacro, sottolineato dal rapporto distanza/prossimità
e dal senso di alterità veicolato da rivelarsi graduale e cangiante del
colore visto da diverse angolature.
L’opera di Roberto Ciaccio risulta, in questo campo, dalla simbiosi tra
arte e artigianato, da lui stesso voluta e praticata, ma che non sarebbe
stata possibile senza la preziosa, competente e acuta collaborazione di
Giorgio Upiglio dal cui laboratorio e dai cui strumenti escono lastre e
fogli. Si potrebbe dire che, in maniera moderna, continua qui la
tradizione delle antiche botteghe di pittura: solo che non ci sono
apprendisti e i maestri sono due.
Certo, Roberto Ciaccio non lavora solo con lastre, dipinge anche in
proprio su tela e su compensato, usa collage di fogli dipinti con
vernici e polveri d’asfalto oppure compone dittici. Nei dipinti a olio,
caratterizzati dalla divisione dello spazio di stile oppositivo, usa
spesso il nero assoluto, opaco, che dà un vorticoso senso di perdita, i
bianchi freddi di titanio o quelli, più morbidi, di zinco, assieme alle
terre e a venature di rosso di cadmio o a sfumature di verde.
Roberto Ciaccio è uno di quei rari artisti che hanno tratto dalla
filosofia motivi d’ispirazione, che ha unito, nel senso di Merleau-Ponty,
l’occhio e lo spirito. La sua è un’opera in cui si vede, dal vivo, il
processo d’impollinazione reciproca tra pensieri e immagini, tra ragione
e immaginazione.
La sua poetica è dichiaratamente ispirata a Heidegger, in particolare al
saggio L’origine dell’opera d’arte, del 1935, che contiene alcune delle
parole-chiave che orientano la sua ricerca, come “luce” (Licht) o
“radura” (Lichtung). Di Heidegger Ciaccio condivide l’idea fondamentale
che la verità o le cose del mondo non si presentano in piena luce, in
diretta evidenza, ma nel contrasto tra luce e ombra, come quello che,
appunto, si mostra dentro la radura di un bosco, dove il chiarore
penetra più abbondante attraverso i rami e le foglie degli alberi e la
luce danza leggera (leicht); dove non appare nel suo radioso trionfo, ma
spartisce la sua presenza con le ombre. L’opera d’arte, per Heidegger,
custodisce appunto questo manifestarsi/nascondersi delle cose.
La produzione di Ciaccio, tuttavia, anche se non credo che la conosca,
mi fa pensare piuttosto alle posizioni della filosofa ginevrina Jeanne
Hersch, allieva di Jaspers, secondo la quale l’opera d’arte apre un
“varco nel tempo”, sfiora il punto di tangenza tra il divenire e
l’eternità, forma un nodo tra trascendenza e immanenza, mostra quanto
permane in ciò che passa, offrendo il massimo mistero nella massima
trasparenza e presentando così una sorta di miniatura d’eternità.

Lettera di
Jacques Derrida a Roberto Ciaccio.
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